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Salute Andrea America 07 novembre 2015 09:49 Circa 3 minuti per leggerlo stampa
MARIGLIANO - Agli inizi di novembre di quattro anni fa ricevetti una telefonata dal mio amico Raffaele, che mi chiedeva di recarmi a casa sua per cose urgenti. Sapevo che la sua giovane figlia Amalia, era stata sottoposta ad un difficile intervento chirurgico per un cancro al seno, e non esitai un attimo a mettermi in macchina. Un quarto d’ora dopo ero a Marigliano, sulla soglia del terzo piano, con il dito sul campanello di casa. Venne ad aprirmi suo figlio Antonio, un bravo giovane, dipendente della Fiat di Pomigliano. Aveva un volto triste e mi salutò a testa china, conducendomi dal padre.
Raffaele era nel saloncino seduto con la testa tra le mani, si alzò e in lacrime si diresse verso di me. Mi abbracciò fortemente, piangendo mi chiese di sedermi al suo fianco. Singhiozzando mi disse: “Ieri mattina i medici dell’ospedale che l’hanno operata, hanno detto che non c’è più niente da fare, perché la metastasi è estesa in varie parti del corpo per cui è preferibile che la portate a casa in quanto le restano si e no, dieci, quindici giorni di vita”. Parlava e lacrimava. Farfugliava e piangeva. Nell’aria di casa la tristezza la faceva da padrona. Sul comodino una immaginetta di San Sebastiano e un’altra di Padre Pio, con dei lumini accesi. Sua moglie era accanto al lettino della figlia, con gli occhi fissi sulla flebo e le mani che stringevano quella della figlia. Rimasi imbambolato, non sapevo cosa dire, cosa fare e come comportarmi.
Forse dissi qualche stupidaggine o frase d’occasione, non ricordo. Ricordo soltanto che nel vedere quella ragazza sofferente, in fin di vita e dallo sguardo spento, invece di dare conforto ai genitori, mancò poco che non fossi io a dover essere confortato. Ebbi la riconferma di essere un debole, un incapace di fronte a situazioni così strazianti. In quel momento si bloccò il cervello, volevo piangere, gridare, imprecare, abbracciare il padre, la madre, o chissà cosa.
Non riuscii a fare niente, non ce la feci a resistere aprii la porta e scappai via. Scappai via come un vile. Mi fermai sulle scale, non riuscivo a capacitarmi del perché quella ragazza da lì a pochi giorni avrebbe dovuto lasciarci per volare in cielo. E pensavo a quella sporca malattia che non si riesce a debellare e falcidia giovani e anziani senza alcuna pietà. Per un attimo rividi Amalia da piccola che mi dava del voi e veniva in occasione delle feste natalizie a casa mia per farmi puntualmente gli auguri insieme al padre. La memoria mi riportò all’estate di quattro anni prima, quando accanto al padre l’avevo applaudita mentre veniva incoronata miss sorriso.
Sono trascorsi tre anni da quel novembre. Amalia è viva e bella più che mai. Ieri mattina l’ho rivista al bar “la dolce vita”, felice e sorridente. Indossava un jeans stretto e giubbotto a piumino grigio. Aveva un taglio di capelli alla maschietta e occhiali Ray Ban. Al suo fianco c’era un giovane con taglio di capelli da marine. Mi è venuta incontro per salutarmi, abbracciarmi e presentarmi il suo amico, che se ho ben capito è di Pomigliano e fa l’avvocato. Vederla è stato un momento di gioia. L’ho trovata in forma, sobria ed elegante, sembrava una di quelle attrici degli anni Sessanta. Mi ha detto che le mancavano solo due esami per la laurea, e che era totalmente guarita. “ Sono contento” ho risposto. E ho aggiunto: “Fammelo sapere quando ti laurei perché voglio essere presente con mia moglie alla tua festa. E ti raccomando, porta in giro la tua felicità, dai lezioni di speranza ai disperati, pensa positivo, e dai un abbraccio forte, forte, a tuo padre, da parte mia”.
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