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Cronaca Redazione 22 dicembre 2013 20:51 Circa 4 minuti per leggerlo stampa
Riceviamo e pubblichiamo. Di Antonio D'Amore
C’è nel Paese un degrado a dir poco insolente. Il quadro è, sempre più, quello di una vera e propria corruzione del sistema e di un ostentato disinteresse a dare soluzione ai problemi di milioni di donne e uomini. Gli ultimi mesi sono stati una gigantesca palestra di anestetizzazione morale.Sono stati “sdoganati” comportamenti che scardinano il lavoro pedagogico di generazioni.
È stato autorevolmente autorizzato l’inaccettabile per qualunque comunità civile, come se l’appartenere al circolo magico del potere permettesse tutto.
Il superamento di ogni limite è plasticamente rappresentato dalle remore a decretare, in attuazione di una legge approvata un anno fa con fanfare e squilli di tromba, la decadenza dal seggio di senatore del responsabile di una ciclopica frode fiscale. Un mondo politico che, fin dai suoi massimi vertici, esprime comprensione per l’esigenza di garantire “agibilità politica” a quell’evasore fiscale è un mondo che ha smarrito il senso del confine tra normalità e indecenza. O che ha fatto dell’indecenza la condizione della normalità.
E per questa via è stata sancita l’ammissibilità della compravendita dei corpi e delle menti, della frode e dell’evasione fiscale, dell’ostentazione del privilegio e del favoritismo spacciato per umanità, della menzogna sistematica e della falsificazione dei fatti. Segnata da questi guasti l’Italia si avvia ad affrontare un passaggio drammatico della propria crisi economica e sociale.
Il punto di partenza è la condizione di vita delle persone. Crescono nel Paese i poveri. A dismisura.
Nel 2012 le persone in condizione di povertà assoluta erano 4 milioni 814mila, pari al 7,9 per cento della popolazione (mentre nel 2011 erano 3,415 milioni pari al 5,2 per cento).
E sono ben 9 milioni e 563mila, pari al 15,8 per cento della popolazione, le persone in condizione di povertà relativa, cioè con una disponibilità inferiore a 506 euro mensili (che erano 8,173 milioni nel 2011 pari al 13,8 per cento). Senza contare l’area della “deprivazione” o della “vulnerabilità”, pari al 41,7 per cento degli uomini e delle donne, non in grado di far fronte a una spesa imprevista di 700-750 euro nell’anno. Si aggiunga che dal 2011, nell’arco di un solo anno, il potere di acquisto delle famiglie è mediamente diminuito del 4,8 per cento e la situazione è in costante peggioramento.
Ma cresce, ancor più, la disuguaglianza. Ormai da anni.
Basta un dato: «Nel 2009 [...] l’amministratore della Fiat, Sergio Marchionne, ha percepito un compenso di 4 milioni e 782 mila euro, pari a 435 volte il reddito di un suo dipendente di Pomigliano d’Arco, intanto, l’indicatore statistico con cui gli economisti cercano di misurare il tasso di disuguaglianza sociale in un Paese, colloca ormai l’Italia ai gradini più bassi dell’Ocse, con un’accelerazione costante a partire dai primi anni Novanta».
In questo contesto l’autunno presenterà conti ancor più salati: una disoccupazione che, nonostante la piccola ripresa nord-europea, continuerà a peggiorare (con gli ammortizzatori sociali da rifinanziare). Una fragilità del sistema bancario che continua a strozzare il credito alle imprese e neutralizza anche i limitati vantaggi del tardivo e assai parziale pagamento della montagna di miliardi dovuti dallo Stato.
La necessità di reperire entro l’inizio del prossimo anno i 50 miliardi di euro della prima delle venti rate imposte dal famigerato fiscal compact, vera e propria macina al collo di un Paese che stenta a restare a galla. Un livello delle remunerazioni nei settori pubblico e privato bloccato da anni, su cifre ormai ai limiti inferiori della graduatoria Ocse.
A fronte di ciò c’è, nel Paese, un’indignazione diffusa. Basta vedere l’andamento del voto nelle ultime tornate elettorali o sfogliare i sondaggi di tutti gli istituti di ricerca. Ancor più, è sufficiente passeggiare in un mercato e viaggiare su tram o treni.
Ma quell’indignazione non conta nulla a livello istituzionale. O veicola movimenti populisti e pieni di contraddizioni.
Così cresce il rischio che essa si chiuda in se stessa e produca sfiducia e rassegnazione anziché resistenza e progettualità.
Uscire da questa situazione è la sfida dei prossimi mesi: mesi, non anni, perché la misura è colma.
Una cosa è certa. Da un buco nero di queste dimensioni non si esce senza una straordinaria quantità di energia politica e sociale.
Senza uno scatto morale: o, se si preferisce, un’impennata d’orgoglio. Senza il senso di una rottura di continuità. Per ricominciare – come sempre è accaduto nei momenti cruciali della storia – bisogna prima finire.
Inutile pensare a una rigenerazione di questo sistema. Il fatto è che un reale cambiamento deve passare attraverso una profonda discontinuità di prassi e comportamenti.
Il punto fondamentale è ormai chiaro: chi fa la politica? i cittadini, singoli e organizzati nella rete di movimenti, associazioni, comitati che animano il quotidiano e i territori? o un ceto politico professionale, investito di un’ampia delega, che trae la sua legittimazione da una sperimentata capacità tecnica (sic!)? Dalla risposta a questa domanda, e dai conseguenti comportamenti, dipende molto del nostro futuro.
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