18/04/2024
(160 utenti online)
Cronaca Andrea America 15 agosto 2013 01:09 Circa 6 minuti per leggerlo stampa
MARIGLIANELLA - Era la vigilia di Ferragosto del 1958. Un giorno tanto atteso dai devoti di Mariglianella, per andare in pellegrinaggio al Santuario di Montevergine,sul monte Partenio, in provincia di Avellino. Erano più di un centinaio, fra uomini e donne, e c’ero anch’io con atri sette/otto ragazzi della mia età, iscritti all’Azione Cattolica. Avevo tredici anni, alla riapertura delle scuole ad ottobre, dovevo frequentare il terzo anno della scuola di avviamento professionale di Marigliano. Quella sera, calda e afosa, ci raggruppammo sul piazzale antistante la chiesa, e dopo avere ricevuto la benedizione dal giovane parroco Don Angelo Toscano, verso le otto, mentre gli ultimi carretti pieni di pomodori, melanzane, spighe, trainati dai buoi, rientravano dalle campagne attraversando le strade semideserte del paese, ci incamminammo a piedi in direzione Nola-Baiano-Montevergine, accompagnati dal din don delle campane.
Ricordo come fosse adesso, il parroco con la cotta bianca che gli copriva fino alle ginocchia la talare, una lunga stola viola, e la tipica berretta nera quadrangolare, che dopo la benedizione, prima della partenza, raccomandò a noi ragazzi di essere puntuali e presenti al ritorno, perché la sera successiva, giorno di ferragosto, dovevamo recitare nella commedia “Non ti pago”,di Eduardo De Filippo, che si teneva nella sala dell’oratorio. Il mio ruolo era quello dell’avvocato Lorenzo Strumillo. In testa al gruppo in partenza per Montevergine, c’era Frate Feliciello, un monaco laico dell’ordine dei francescani, del convento di San Vito, che reggeva la croce in legno, seguito da tutti noi, da interi gruppi familiari, donne e ragazze non ancora sposate, le quali durante la salita verso il monte promettevano alla Madonna di ritornare l’anno successivo in compagnia dello sposo. La tradizione voleva che si rimanesse tutti digiuni fino al ritorno e ci si astenesse assolutamente da carni, uova e formaggi, ma non mancavano thermos pieni di caffè e della frutta.
L’arrivo al Santuario secondo “gli esperti”, era previsto per le nove del giorno successivo, giornata dell’Assunta, dove ogn’uno poteva confessarsi, ascoltare la Santa messa, e dopo fare ritorno a casa. Molte delle donne, soprattutto le più giovani andavano scalze all’andata, per ringraziare la Madonna per la grazia ricevuta per propri familiari, e intonavano l’inno della madonna Mamma Schiavona, al ritorno i canti popolari, accompagnati dalla fisarmonica di Salvatore e dalla tammorra di Giggina. Il giovane Eduardo che aveva una bella voce ed era tifoso di Domenico Modugno, più di una volta si mise a cantare “Nel blu dipinto di blu”, la canzone vincitrice del Festival di Sanremo quell’anno. Zia Santina, la più anziana di tutti si faceva ascoltare con piacere cantando “a fronne e limone” gli stornelli, insieme a Mimì ‘o Pettinello. Era la prima volta che andavo in pellegrinaggio al Santuario, dopo che avevo sentito continuamente raccontare dai miei genitori, la storia del loro fidanzamento.
Mio padre,il mio eroe preferito, per il quale stravedevo, ,oltre a raccontarmi spesso delle sue gesta militari col grado di sergente maggiore nell’esercito, durante la Seconda guerra mondiale, mi ripeteva che all’inizio degli Anni 40, durante una di queste gite a Montevergine, mandò l’imbasciata- cosi si diceva a quei tempi-a mia madre tramite Filoccia, una loro amica e si fidanzarono. Ma io purtroppo, non dovevo mandare l’imbasciata a nessuno, volevo semplicemente andare a ringraziare e pregare quella Madonna artefice del fidanzamento- matrimonio, dei miei genitori, i migliori al mondo. Ma, haimè, oltrepassato Baiano,verso Monteforte, nel buio della notte, verso l’una, nel mezzo della montagna, ci ritrovammo a fare i conti con un‘inaspettato e burrascoso temporale estivo, il quale non ci diede tregua e non fino all’arrivo. E sarebbe stato ancora poco se il giovane Cianfrone, forte come un leone, non fosse stato colpito da un mal di stomaco, con vomito e febbre da cavallo, che lo facevano reggere all’impiedi solo grazie all’aiuto della fidanzata, Rosetta, la quale non lo lasciò solo neanche un minuto. In aggiunta si verificò un fatto insignificante, ma strano, il canto di una civetta, si riaffacciava ogni qualvolta facevamo sosta per riposare, mettendo in allarme Nanninella ‘a chiatta, la quale impaurita, con un viso cadaverico, ribadiva di continuo che quel canto era un segnale di malaugurio.
Ma il peggio doveva ancora venire. Arrivammo al Santuario, verso le dieci del mattino, bagnati strabagnati, stanchi e irriconoscibili. Ci recammo subito dai monaci per informarli del nostro arrivo, chiedere assistenza per Cianfrone che non dava segnali di miglioramento, ma anche per farci ospitare in un luogo, una casupola, dove poter asciugarci, ripulirci, per poi entrare in chiesa ad ascoltare la Messa. Ma non bastarono le lacrime di Mario, il pianto di Maria, le preghiere di Filomena, la disperazione di Felice, le proteste di Peppino. Non ci fu verso per convincere i due monaci benedettini, ad indicarci almeno un buco di accoglienza, fino a quando uno di essi il più giovane, del tutto infastidito ci disse: “Adesso basta, mi avete scocciato, smettetela altrimenti non vi farò entrare in chiesa per come siete combinati, andate ad asciugarvi e pulirvi altrove, ma non pretendete che dobbiamo ospitarvi per il solo fatto che siete venuti a piedi in pellegrinaggio. Per questo giovane che sta male, spero non vogliate scambiare il santuario per un ospedale, vedete dove portarlo”.
L’altro monaco, un pò panciuto, tarchiato, con i sandali ai piedi colore marrone e la barba rossa, con somma calma aggiunse: “Fratelli miei, non siate nervosi e impazienti, è vero che avete camminato l’intera notte sotto la pioggia per venire dalla Madonna,ma questo non vi obbliga a pretendere l’ospitalità. Tenete presente che nessuno vi ha chiesto o tantomeno obbligato di venire qui a piedi. Adesso però datemi il tempo e vediamo di trovare una sistemazione, ma non andate in chiesa prima di pulirvi. E vi raccomando dal prossimo anno cercate di prendere la funicolare che dalla stazione di partenza di Mercogliano a Montevergine, impiega soltanto sette minuti”. Non so cosa mi capitò, non avevo mangiato niente durante la notte, morivo dal sonno e dalla stanchezza, mi girava la testa, volevo reagire, guardavo con sospetto i monaci, cercai di mantenere Totonno che voleva aggredirli, Felice che farfugliava, Marittella piangeva con la corona fra le mani, Assuntina che ripeteva Gesù mio, Gesù mio, ma senza accorgermene mi ritrovai disteso sulle scale d’ingresso della chiesa, mentre rinvenivo tra un folla di persone, con Filomena che mi aveva messo una bottiglietta di profumo senza il tappo sotto le narici, il sole aveva scacciato le nuvole e ripreso il suo posto alla grande.
Provai ad alzarmi ma mi mancavano le forze, vidi soltanto una figura sbiadita somigliante al monaco anziano che gridava: “sgomberate le scale, sgomberate le scale, lasciate libero l’ingresso”. Era il giorno di Ferragosto del 1958. Il giorno dell’Assunta. La prima e l’ultima volta che sono stato a Montevergine. La sera non ero l’avvocato Strumillo sul palco dell’oratorio. Ero Andrea con la bronchite e febbricitante, a letto, con mia mamma e i miei fratelli a fianco, e con l’immaginetta della Madonna di Montevergine sul comodino. L’orologio a pendolo sulla parete segnava le 20 e 35, per televisione dopo il telegiornale andò in onda Carosello, con Ernesto Calindri al centro della strada con il carciofo della Cynar, consigliato già allora contro il logorio della vita moderna.
RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright MARIGLIANO.net
Commenti