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Cronaca Andrea America 23 dicembre 2012 00:51 Circa 5 minuti per leggerlo stampa
...quando mio zio comprò la Vespa
MARIGLIANELLA - Questa letterina di Natale che conservo con cura tra i ricordi della mia vita è del 1953. Avevo otto anni, frequentavo la terza elementare, e come da tradizione la posi sotto il piatto di mio padre, durante il pranzo natalizio. La guardo con un pizzico di emozione, la memoria all’indietro fra sogni e favole, sento il dolce suono delle zampogne, mi rivedo con i calzoncini corti che la leggevo, con mio fratello Giovanni di quattro anni a fianco, e mio padre seduto a capo tavola. L’avevo scritta a scuola con il pennino a cavallotti. Era l’Italia del dopoguerra, dell’orgoglio e della semplicità. C’erano la pace, la ricostruzione,la voglia di vivere, la speranza,il benessere alle porte, gli occhi lucenti di mia madre, i sogni che si avverano. In molte famiglie del mio paese, a maggioranza operai e contadini, si respirava aria di miseria. Il paesaggio era fatto di campagne fertili, destinate a ricche colture e raccolti abbondanti.
Sin dalle prime ore del mattino era normale vedere il treno affollato di operai con la merenda fra le mani, i contadini con indosso solo una maglietta bianca di lana, con i piedi affondati nella terra che si stropicciavano le mani per poi afferrare la zappa con tutta la forza delle loro braccia, e giù un colpo dietro l’altro per tracciare profondi solchi nella zolla nera e umida della campagna dai mille colori. Dentro la calda cornice di questa natura, si era portati a essere tutti come una grande famiglia in cui i tratti dominanti erano la semplicità, la naturalezza, l’essenzialità dei gesti e delle parole. In molte famiglie viveva la sana tradizione del presepe, in altre dell’albero di Natale, anche se piccolo, addobbato con poche palline e senza luci. Ricordo che quell’anno, nella mia scuola, qualche giorno prima si tenne la recita e mi toccò leggere una poesia davanti ai genitori degli alunni assiepati nel corridoio dell’edificio, con mia mamma emozionata ad applaudire davanti a tutti.
La letterina che ho in mano, un pochino consumata ai lati, fu l’ultima che scrissi, perché mio zio quel giorno a furia di prendermi in giro mi convinse che Babbo Natale non esiste. Ho in mente, come fosse ieri, la tavola apparecchiata, con mia sorella Martina più grande di me che aiutava mia madre incinta, a servire le pietanze. C’erano inoltre mia nonna materna, che mi regalò il libro Cuore di De Amicis, i fratelli di mia madre, Salvatore e Vincenzo, che mi regalarono una pistola giocattolo, le sorelle Maria e Filomena, e Angelo, mio cuginetto. Eravamo in undici, anzi dodici, compreso il nostro cagnolino nero accovacciato accanto al braciere e ci facemmo prestare due sedie dalla signora Consiglia, vicina di casa. Mio padre quarto di otto figli, nato nel 1920- al quale davo del voi- operaio edile, grande tifoso di Fausto Coppi e del Napoli, seduto a capo tavola, chiedeva notizie a mio zio Vincenzo, operaio carpentiere, della Vespa 125, che aveva comprato una settimana prima a cambiali per novantacinquemila lire, dopo aver visto il film Vacanze Romane, con Gregory Peck che portava in giro sulla vespa Piaggio la bella Audrey Hepburn per le vie della capitale. Mia madre, primogenita di sette figli-casalinga,aveva imparato a leggere e scrivere da mio padre dopo il matrimonio.
Erano una coppia felice. Non conoscevano il lusso di una vacanza e la loro vita era fatta di stenti e sacrifici, ma quando giungeva il Natale mia madre iniziava una settimana prima a preparare il pranzo, ad assicurarsi che mi recassi in chiesa alla messa per ragazzi, col pantaloncino in ordine, rattoppato e ben stirato e il cappottino pulito. Nella preparazione del pranzo ci metteva tutta la sua passione per la tradizione della cucina nostrana. A mio padre quella volta gli ridevano i baffi al sentire il profumo del tacchino al forno, e dei carciofi arrostiti che, intanto, si diffondeva nell’aria, mentre dalla radio a valvole poggiata sul comodino giungeva la voce di Giorgio Consolini che cantava Vecchio Scarpone. Ho ancora davanti agli occhi la figura di mia madre con i capelli avvolti tenuti da una forcina, e le maniche tirate fino ai gomiti che adagiò la pentola con la minestra sulla tavola, con grande devozione, sotto gli occhi della nonna.
Mio padre, dopo aver mangiato la minestra e bevuto un bel bicchiere di vino rosso, con una mollica di pane di grano, prese a raccogliere pezzettini di salsiccia e di carne rimasti sul fondo del piatto. Fu presto imitato dai miei zii. Il pranzo finì alle quattro del pomeriggio fra noccioline, castagne, datteri, roccocò, fichi imbottiti e la pizza con le scarole. Per digestivo c’era un vasetto di uva sotto lo spirito portato dalla nonna,ma non per noi bambini. Alle cinque della sera, con i miei zii ero al cinema Vittoria di Marigliano, zeppo come un uovo e appestato di fumo, a vedere il film Pane amore e fantasia, con Vittorio De sica e Gina Lollobrigida. Al ritorno a casa trovai i miei genitori che giocavano a tombola con Consiglia, Vincenzo, Giulia, Nanninella, e altra gente del cortile. L’aria era gelida, battevo i denti dal freddo pungente. Il braciere era rotto e andai di corsa ad infilarmi sotto le coperte in compagnia di Capitan Mike e Tex, i miei eroi preferiti, con Gesù Bambino che mi sorrideva dall’alto,e un dolcissimo Natale che se ne andava.
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