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Cronaca Redazione 19 giugno 2009 23:53 Circa 19 minuti per leggerlo stampa
Le cause e i fatti di quel lunedì
Le cause della rivolta devono essere ricercate innanzitutto nella scarsa considerazione che l'agricoltura ha avuto sempre nell'ambiente politico, nei sacrifici non ripagati, nelle condizioni di fame in cui, spesso, si sono venuti a trovare i contadini. Allora, comunque, ci furono motivi contingenti che fecero precipitare una situazione già al limite della precarietà .
Nel '57 l'Italia era entrata a far parte del Mercato Comune Europeo (MEC). Una serie di trattati e norme furono firmati a Roma per la creazione di un grosso mercato europeo, che eliminando e riducendo le barriere doganali esistenti, avrebbe permesso un più facile movimento di capitali, merci e manodopera.
In Italia non tutti appoggiarono una simile iniziativa e se i socialisti, nella votazione per la ratifica dei trattati del 25 Marzo 1957, si astennero, i comunisti votarono contro.
Soprattutto a livello agricolo parecchie erano state le discussioni; non tutti infatti erano convinti della validità di quegli accordi. La FEDERTERRA, la FEDERBRACCIANTI e le forze politiche di sinistra alle quali questi due sindacati erano collegati, non avevano mai appoggiato questa iniziativa per cui erano molto critici. L'agricoltura italiana, a giudizio di questi ultimi, era arretrata e continuamente in crisi per mali interni. Urgevano risanamenti e strutture più adeguate per un migliore sfruttamento. In nessun caso avrebbe potuto concorrere alla pari con quella di Germania, Francia, Olanda, Belgio, ecc. I nostri prodotti inferiori e ad un costo più alto avrebbero condizionato negativamente ancora di più l'agricoltura meridionale.
Sembrò che ciò non fosse capito da nessuno dei nostri governanti.
 La Confederazione dei Coltivatori Diretti, diretta da Bonomi, uomo di punta della DC nelle campagne, spinse i contadini ad adeguarsi forzatamente ai tempi e a produrre ciò che il mercato estero richiedeva. Si procedette alle riconversioni culturali: non più grano, per il quale il prezzo fu ridotto di cinquecento lire al quintale, ma dappertutto nella zona patate. Furono seminate anche là dove i terreni producevano ottima canapa e abbondanti cereali. E' chiaro che una simile politica agraria per adeguarsi al mercato comune esigeva nei periodi di raccolta una difesa delle esportazioni, ma niente fu fatto in tal senso. Come se non bastasse, per il Giugno '59, epoca in cui si svolsero i fatti che stiamo per raccontare, si prevedeva un raccolto abbondante. Le condizioni atmosferiche erano state tali da permettere una produzione molto più elevata quantitativa- mente.
Tutto faceva prevedere un'ottima annata, con guadagni cospicui; ma come spesso capita in questo lavoro bastò poco perché le speranze dei contadini andassero disilluse.
Lo sconforto e lo scoraggiamento presero i contadini della zona. Ai mali di sempre, determinati da una agricoltura asfittica ed arretrata, s'erano aggiunti quelli recenti. Da alcuni anni erano stati incoraggiati a seminare patate ed ora, in questa fase di raccolta, niente veniva fatto per difendere il calendario d'esportazione e far rispettare gli accordi del mercato comune.
La situazione era grave; le patate, come sempre durante il periodo della semina, acquistate a cambiali presso i consorzi agrari, ora dopo tanto lavoro, mature e pronte per essere raccolte, non trovavano sbocco sul mercato. La mancanza di acquirenti del principale prodotto coltivato nella zona portava i contadini sull'orlo del fallimento; la fame bussava alle porte e come giustamente scrissero alcuni giornali: "Non è con le parole che si può impedire il desco".
Quelli che precedettero la "Rivolta delle patate" dell'otto Giugno 1959 furono giorni di riunioni e di agitazioni per i contadini. Ma la mancanza tra di loro di uomini capaci di delineare una strategia di lotta, la non chiara visione d'insieme dei fatti, lo scoraggiamento e lo sconforto in cui versavano gli agricoltori, impedirono che da quelle riunioni scaturisse una ben precisa piattaforma rivendicativa. Il pesante e faticoso lavoro dei campi non lasciava tempo ai contadini per interessarsi d'altro. Abbandonati a se stessi e mai educati, i contadini della zona sono sempre stati molto chiusi, incapaci di far valere a livello dialettico le loro tesi, avversi a tutto ciò che potevano essere discussioni, scioperi, sindacati, firme, ecc.. Lo scetticismo e la diffidenza verso certe forme di associazioni aumentarono.
Fino ad allora le sedi delle due maggiori organizzazioni di Marigliano, Federazione dei Coltivatori Diretti e CISL, erano servite solo come luogo di riunioni serali e raramente si erano accese discussioni sui difficili problemi dei contadini e su rivendicazioni a largo respiro. Ora, però, la situazione era grave, il prezzo delle patate era sceso da undici a sette lire (l'anno precedente erano state ritirate a trentotto lire) e addirittura negli ultimi giorni mancavano acquirenti. Il problema quindi richiedeva un deciso interessamento delle OO.SS. e politiche.
Nella grave situazione venutasi a creare il Comitato di agitazione provinciale degli agricoltori, costituitosi per lÂ’occasione, nel corso di una riunione presso la Federazione di Napoli della Coltivatori Diretti, pervenne alla elaborazione di una piattaforma rivendicativa sulla base di quattro punti fondamentali: riapertura delle esportazioni, rinnovo delle cambiali firmate per l'acquisto di concimi e sementi prossime a scadere, sospensione delle imposte e riduzione degli estagli per gli affittuari, prezzo minimo garantito attraverso l'ammasso di quindici lire al kg.
I primi incontri con i rappresentanti locali del governo si ebbero sabato 6 giugno. Una delegazione ristretta sottopose all’esame del Prefetto un dettagliato ordine del giorno. I rappresentanti della categoria esprimevano le loro doglianze illustrando le richieste dei coltivatori e annunciarono che all'indomani la categoria avrebbe trasformato la manifestazione in sciopero, intendendo così protestare e far sentire più significativa la sua voce perché le ragioni dei produttori della provincia di Napoli potessero ottenere immediata valutazione.
A questa riunione fece seguito il sabato pomeriggio a Marigliano una piccola manifestazione dei contadini. Coloro che sentivano di più il problema, si riunirono in piazza e mandarono una loro delegazione dal Sindaco Prof. Basile (disinteressatosi fino ad allora della questione) e dopo aver fatto presente le condizioni di malessere che la mancata vendita delle patate comportava per i contadini, lo invitarono a partecipare per l'indomani alla grande giornata di lotta che si doveva tenere a Napoli. Questi, come primo cittadino, avrebbe dovuto guidare la delegazione che sarebbe partita da Marigliano. Nell'occasione, data la tensione degli ultimi giorni, qualcuno fece anche presente l’opportunità che il solito mercatino del lunedì non si svolgesse, ma entrambe le richieste come vedremo, restarono lettera morta.
Domenica pomeriggio nella sala delle riunioni comunali si tenne una seconda seduta: oltre al Sindaco e ai rappresentanti degli agricoltori era presente anche l'onorevole Colasanti. Questi, allora Ministro dei trasporti, nel suo intervento, disse espressamente di farsi portavoce presso gli organi di governo delle giuste richieste degli agricoltori della zona. A dire dei partecipanti questa riunione fu burrascosa; i contadini mariglianesi abbandonati per tanto tempo a loro stessi, identificarono nel rappresentante del Governo il colpevole dei loro mali, il responsabile dell'errata politica agraria e della crisi determinatasi, tanto che non poche persone dovettero intervenire per evitare che l'onorevole venisse linciato. Colasanti capì che le parole a quel punto non bastavano più e che se gli agricoltori mariglianesi, di solito tranquilli e pacifici, erano giunti a tanto era proprio perché la fame e la disperazione bussavano veramente alla porta. Occorrevano a questo punto solo fatti, anche se non tutto poteva essere risolto nel giro di pochi giorni. Pertanto invitò i contadini a partecipare alla manifestazione del domani per dimostrare così la loro grave situazione.
Conclusa la riunione, per Marigliano e frazioni, girò un banditore che invitava i contadini ad abbandonare il lavoro nei campi e a riunirsi l'indomani, 8 giugno, nella piazza di Marigliano, da dove una delegazione avrebbe raggiunto Napoli. Lunedì mattina, 8 giugno, mentre a Marigliano si svolgevano i fatti che descriveremo dopo, a Napoli, come stabilito il sabato mattina in Prefettura, convennero delegazioni da tutta la provincia per partecipare alla proclamata manifestazione di protesta. Presso Porta Capuana, punto di incontro dei contadini, si riunirono circa cinquemila agricoltori, convenuti da tutta la provincia, che, in corteo, si mossero alla volta della Prefettura. Fra questi contadini come vedremo, nonostante le riunioni che si tennero a Marigliano tra il sabato pomeriggio e la domenica e che fecero seguito a quella di Napoli del sabato mattino, non vi era la delegazione mariglianese. Solo pochi contadini della zona, infatti, parteciparono a questa manifestazione di Napoli, quei pochi che avendo la possibilità di pagarsi il biglietto, decisero di propria iniziativa di seguire l'on. Colasanti. Il corteo sfilò per le vie della città raggiungendo Piazza Plebiscito, sede della Prefettura. Qui la delegazione dei coltivatori diretti, guidata dal direttore generale l'On. Ferrara, quella della federterra e federbraccianti, il cui maggiore rappresentante era l'On. Gomez D'Ayala, e infine la delegazione della C.I.S.L., di cui si era fatto portavoce l'On. Colasanti, furono ricevuti dall'allora prefetto Spasiano. Proprio mentre si susseguivano queste riunioni fra prefetto, rappresentanti della Camera del Commercio e delegazioni contadine, arrivarono in Prefettura le prime notizie degli incidenti di Marigliano.
Il lunedì mattina (8 giugno) a Lausdomini, nella piazzetta antistante la chiesa, ci fu una riunione di donne che, per le condizioni di miseria in cui versavano le proprie famiglie, volevano anch'esse manifestare insieme agli uomini, portandosi a Marigliano. Il rapido intervento della forza pubblica impedì che la manifestazione degenerasse e le donne furono invitate a partecipare con calma alla giornata di lotta.
Verso le 7 a Piazza Municipio, la piazza antistante l'edificio comunale, iniziarono a giungere alla spicciolata i primi contadini per partecipare alla manifestazione. Venivano dal centro antico di Marigliano, da Lausdomini, San Nicola, Faibano, Miuli, Casaferro e da altri piccoli centri vicini: Castel Cisterna, Brusciano, San Vitaliano, Scisciano, che gravitano sul Comune di Marigliano. A questo punto non bisogna dimenticare che il lunedì, giorno di mercato, l'intera Piazza Municipio era occupata da venditori ambulanti provenienti dalle zone limitrofe. A proposito ricordiamo che le Autorità erano state consigliate, data l'atmosfera tesa di quei giorni, di evitare che il mercato avesse luogo, ma nessun ordine fu dato e nel giro di poco tempo i venditori, montate le baracche, esposero, come al solito, la loro merce.
Erano le 7 e trenta quando già un migliaio di contadini affollava Piazza Municipio. Qua e là , in piccoli gruppi, si discuteva pacificamente della grave situazione del momento. Si sperava comunque in un rapido intervento da parte del Governo, soprattutto dopo questa giornata di lotta. Discutendo si aspettava, secondo quanto era stato deciso la sera precedente, l'intervento del Sindaco Basile, che avrebbe dovuto guidare la delegazione alla volta di Napoli. I minuti passavano, aumentava la gente e aumentava soprattutto la tensione. Qualcuno iniziò a pensare che come sempre le Autorità , dopo aver promesso, si sarebbero tirate indietro disinteressandosi della questione. Qualcuno disse che se il Sindaco non avesse voluto partecipare alla manifestazione avrebbe almeno ordinato alla Circumvesuviana un certo numero di biglietti a spese del Comune, in modo da permettere alla delegazione di raggiungere Napoli. La situazione economica era talmente grave, infatti, che non si aveva la possibilità di pagarsi nemmeno un biglietto per Napoli e ritorno. Verso le 8, invece del Sindaco o di qualsiasi altra Autorità comunale, scesero dalla caserma allocata nello stesso edificio del Comune, alcuni carabinieri, guidati dal brigadiere Petrucci, per evitare con la loro presenza l'insorgere di disordini. In tutta buona fede i contadini iniziarono a discutere con loro cercando di interessarli al problema e chiarendo ancora una volta, se ce ne fosse stato bisogno, i motivi di protesta. Il brigadiere, forse allarmato dall'atmosfera ormai tesa e resosi conto dell'esiguità delle forze a sua disposizione, per far fronte ad eventuali disordini, chiese l'intervento di rinforzi alla vicina tenenza di Nola. Nel giro di pochi minuti ingenti nuclei di carabinieri guidati dal capitano Tamburrino giunsero in Piazza Municipio, ormai affollatissima. Tutto ciò aumentò tra i contadini il malumore e soprattutto il sospetto e la sfiducia. Era una semplice manifestazione contadina e non si capiva il perché dell'intervento di altri uomini della forza pubblica.
Il capitano Tamburrino, appena sceso dalla camionetta, senza rendersi bene conto di ciò che stava succedendo ed impaurito dall’enorme numero di manifestanti, dopo aver discusso per pochi minuti col brigadiere Petrucci, diede l'ordine di sfollare. Dopo attimi di silenzio i contadini tacitamente furono d'accordo nel non ubbidire all'ordine assurdo e cercavano di spiegare ai militi, che qua e là con mitra in pugno spingevano i contadini a ritornare a casa, i motivi della loro protesta e di quella riunione. Un gruppetto di persone si portò verso il capitano Tamburrino cercando di convincerlo a ritirare l'ordine, ma senza alcun risultato. Com'è facile intuire la folla cominciò ad agitarsi.
Il brigadiere Petrucci, forse convinto di riuscire con un gesto autoritario a riportare la calma, improvvisamente cominciò a roteare, avanzando verso la folla, il cinturone con l’intento di allontanare i manifestanti dal Palazzo Comunale. Colpì un anziano contadino che cadde pesantemente sui contenitori di frutta e ortaggi ancora esposti dai venditori lungo il viale alberato davanti al Municipio. Fu un atto inutile e provocatorio, la goccia - come si suol dire - che fece traboccare il vaso. Fra i manifestanti vi erano i tre figli, braccianti agricoli, del vecchietto di San Nicola, i quali intervennero in soccorso del padre. Dalla folla si levarono grida: "Cornuti e mazziati". Da tempo si subiva e si accettavano supinamente ingiustizie e soprusi, era giunto il momento di reagire e di dimostrare che si era uniti e coscienti, capaci di protestare.
Uno spingi spingi generale iniziò intorno ai militi, soprattutto intorno al brigadiere Petrucci. Il sottoufficiale rapidamente si allontanò rientrando nella vicina caserma, mentre volavano verso di lui frutta, ortaggi e relativi contenitori. A dire dei partecipanti il lancio era così fitto che a stento si vedeva il cielo. Chiaramente la pacifica manifestazione si stava trasformando in agitazione. I carabinieri si strinsero intorno al loro capitano e man mano si ritiravano verso il Palazzo comunale che avevano alle spalle, consigliando la calma e cercando di evitare la sassaiola che per la qualità degli oggetti non era pericolosissima.
A questo punto il capitano Tamburrino ordinò ai suoi uomini di lanciare candelotti lacrimogeni per disperdere la folla. Eccitati dal fumo i manifestanti iniziarono a lanciare attrezzi agricoli: vanghe, pale, catene, contro i militi che si rinchiudevano nel Municipio. Altri oggetti furono scagliati presso le finestre dell'edificio comunale frantumando tutti i vetri. Qualcuno, seguito subito da altri iniziò a smontare i tubi di sostegno delle baracche dei venditori distruggendo con questi tutto ciò che era possibile: casse, banchi di vendita, teloni, ecc.. Completamente distrutte andarono la porta d'entrata del Circolo Unione o "dei signori" allocato al piano terra dell'edificio comunale. Nel caos generale venutosi a creare vennero fermati camion, macchine, un pullman delle linee Napoli - Avellino e, con la benzina estratta, fu dato fuoco alla sede dell’esattoria comunale ubicata al piano terra del Palazzo tra la Caserma e l’Ufficio Postale. L’esattoria, per i contadini, rappresentava il simbolo della loro miseria.
Per evitare che qualcuno chiedesse l'intervento di altre forze di polizia fu dato anche alle fiamme, dopo aver rotto i vetri e tagliati i fili del telefono, il vicino ufficio postale. I militi barricatisi, per sfuggire alle fiamme, al piano superiore della caserma ubicata nello stesso palazzo comunale e consapevoli dei danni provocati dagli atti del loro capitano, sparavano continuamente raffiche di mitra per intimorire la folla. L'espansione delle fiamme all'interno della caserma fece saltare in aria il deposito di munizioni facendo crollare anche la parete al pian terreno, cosa che fortunatamente non provocò nessuna vittima. L'intera zona fu avvolta dalla polvere e calcinacci mentre il fumo andava man mano dissolvendosi.
La rabbia dei contadini si scatenò, poi, contro la sede del dazio, al corso Vittorio Emanuele, poco lontano appunto da Piazza Municipio. Qui lo sdegno fu più forte: il dazio che imponeva il pagamento delle tasse per l'acquisto di ogni genere di consumo, era odiatissimo dai contadini. Bisognava pagare quando si ammazzava un maiale, si comprava vino, olio, prodotti agricoli ecc. ed è facile comprendere come non solo i contadini cercassero sempre di eludere questo pagamento, ma come fosse mal visto e sopportato: tassava generi di prima necessità e non sempre si aveva la possibilità di pagare. Abbattuta la porta d'entrata con un randello di ferro, fu dato alle fiamme. In un cassetto della scrivania di questa sede furono trovati anche dei soldi. La tentazione di dividerli fu enorme e naturale. "In fin dei conti - si disse - sono soldi nostri, non rubiamo niente a nessuno". Bastò però che uno solo dicesse: "di noi contadini si può dire tutto, tranne che siamo dei ladri" e l'idea fu abbandonata. Anche i soldi, sia pure a malincuore, furono dati alle fiamme insieme a tutto il resto.
Quella mattina di giugno, a Marigliano, per poco più di un'ora non si capì nulla. Le fiamme che si sprigionavano dai vari uffici davano a Piazza Municipio l'aspetto di un "campo di battaglia". Mentre qualcuno per timore o forse perché convinto che si erano superati i limiti abbandonava il centro cittadino, tanta altra gente, soprattutto contadini, diffusasi la notizia di ciò che era accaduto, un po' per curiosità , un po' per partecipare allo sfogo collettivo, si precipitarono a Marigliano affollando ancora di più il centro cittadino. Gente che andava, che veniva lungo le strade che portavano a Piazza Municipio, qua e là si formavano gruppi, si discuteva, "...chi è stato, quando, come" ed ognuno esprimeva il proprio parere sul fatto esagerando, come spesso capita in queste occasioni, ciò che aveva visto e ciò che stava succedendo. I giudizi erano contrastanti, ma su un punto tutti erano d'accordo: c'erano tutti i motivi perché lo sciopero si tramutasse in quel caos generale. I commercianti e i venditori ambulanti, giunti di buon'ora a Marigliano per partecipare al solito mercatino del lunedì, resisi conto della situazione determinatasi, subito si diedero a riordinare la merce esposta poco prima per evacuare al più presto Piazza Roma. Mentre i più veloci, riordinata la merce nei camion, abbandonavano la piazza, non pochi furono i contadini che si diedero a saccheggiare il reparto alimentare del mercato.
 La fame non era una parola vuota e lì esposta vi era ogni tipo di derrata: mortadelle, provoloni, pacchi di pasta, ecc., tanto che negli anni successivi qualcuno venne soprannominato col nome della merce che riuscì a portare a casa: " 'o murtadell", "o’ pruvolon", ecc.. Ciò è ricordato a Marigliano, a fatti quasi dimenticati, con una punta di sorriso, ma allora chiunque, credo, si sarebbe comportato in quel modo, in fin dei conti si rubava per mangiare.
Verso le dieci, a poco più di un'ora dal fatidico gesto del brigadiere Petrucci, la folla, sfogatasi, andava man mano calmandosi. I Carabinieri dovevano, intanto, fuoriuscire dal palazzo comunale, perchè le fiamme man mano aumentavano. Ed allora il capitano Tamburrino chiese, questa volta molto amichevolmente, di colloquiare con i contadini. Si trattava, in realtà , di prendere tempo. L’Ufficiale dei Carabinieri sapeva che di lì a poco, sarebbe giunta a Marigliano la “celere”, quello speciale corpo di polizia istituito negli anni ‘50 dall’allora Ministro degli Interni Mario Scelba, addestrato ed utilizzato esclusivamente per “mantenere l’ordine” nel corso di scioperi e manifestazioni.
Da pochi minuti, infatti, il capitano Tamburrino, deposte le armi, parlava ad una moltitudine di persone che si erano avvicinate ad ascoltare le parole di comprensione che l’ufficiale esprimeva nei confronti dei manifestanti, quando arrivò nitido, sia pure da lontano, il suono prolungato e cupo emesso dalle sirene delle jeep dei celerini provenienti da Napoli. Giunsero in un baleno nel centro di Marigliano dando il via, senza fermarsi, ai classici caroselli, trasformando la piazza e tutte le strade della città in campo di battaglia.
Giunsero anche i primi camion di pompieri per spegnere le fiamme che si levavano dall'edificio comunale e da quello del dazio, sui quali maggiormente s'era scagliata l'ira dei contadini.
Ai tutori dell'ordine e alle autorità che giunsero a Marigliano, lo spettacolo che si presentava ai loro occhi non era tra i migliori: due edifici in fiamme, Piazza Municipio devastata, attrezzi agricoli e prodotti ortofrutticoli sparsi per terra, una camionetta capovolta e un pullman che ostruiva Corso Umberto. Gente che andava, che veniva, e tanti altri, soprattutto i più convinti, che affollavano ancora il centro. Era chiaro che a Marigliano si era andato ben oltre le intenzioni dei contadini. Ciò che era successo non poteva essere definito come semplice sciopero: i numerosi danni stavano a testimoniare che s'era trattato di una rivolta che nessun motivo valido avrebbe potuto giustificare. Bisognava quindi trovare a tutti i costi dei colpevoli, persone, poveri contadini che pagassero i danni materiali e soprattutto per la grave insubordinazione.
Si procedette, quindi, indiscriminatamente ai primi arresti. Centinaia di persone, ammanettate, molte delle quali nulla avevano in comune con ciò che era successo, furono condotte e concentrate nel grande cortile della Caserma di Nola. Piazza Municipio e Piazza Roma, nel giro di poco tempo, furono evacuate; non pochi contadini anzichè far ritorno alle proprie case riempirono i camion dei Carabinieri alla volta di Nola. Non si ascoltavano ragioni, bastava trovarsi a Marigliano per essere considerati come fautori dell'accaduto. Iniziò così "la vergognosa caccia all'uomo" che, feroce in quel giorno, durò per tanti altri ancora.
Per parecchie ore, bloccate le vie d'accesso alla città , le forze dell'ordine si diedero a rastrellare Marigliano, arrestando tutti coloro che trovati per strada potevano essere sospettati. Lo stato d'assedio durò per l'intera giornata e, a sera, fu dichiarato il coprifuoco. Marigliano cadde in un pauroso silenzio, ed è facile immaginare lo stato d'animo della popolazione che si sentì "braccata come cani".
Era già sera inoltrata quando oltre cento arrestati, incatenati e ammassati in cinque camion dei Carabinieri, furono trasferiti alle carceri di Poggioreale. L’autocolonna, stretta da una ingente scorta di militi, allo scopo di evitare il passaggio per Marigliano, partì da Nola alla volta di Pompei, dove venne immessa sull’autostrata in direzione di Napoli.
Nei giorni successivi fu vietato fermarsi a discutere in più di due o tre persone. A tutti sembrò di vivere i paurosi giorni della guerra. Sfollata Piazza Municipio, si portarono sul posto le più svariate autorità , per rendersi conto della portata dei fatti: dal commissario Greco, procuratore capo della Repubblica col sostituto dott. Capocalatro, al dott. Colombo capo dell'ufficio politico della questura, e prima di tutti il Sindaco Basile con altre autorità comunali, la cui presenza, solo poche ore prima, avrebbe rincuorato i contadini ed evitato gli incidenti.
A Poggioreale, nei giorni successivi, si procedette ai primi interrogatori degli arrestati. Uno di loro, forse per paura o perché veramente convinto di essere rilasciato, iniziò a fare i nomi e gli indirizzi di tutti coloro che avevano partecipato alla sommossa. La caccia all'uomo da generica divenne specifica e sbigottì i mariglianesi per moltissimi giorni. La polizia in questo caso pur di arrestare i colpevoli o presunti tali, si lasciò andare a molti atti riprovevoli.
Parecchi della lista dei nominativi, che aumentava di giorno in giorno, furono arrestati durante la notte, sia perché il lavoro nei campi li faceva considerare latitanti durante il giorno, sia per non attirare l'attenzione e suscitare altro panico nella popolazione. Altri, poi, con il pretesto di essere interrogati sui fatti, senza nessun avviso, furono condotti da Marigliano direttamente a Poggioreale.
Per tanti di loro il modo in cui furono arrestati fece sì che, indipendentemente dai reati commessi quel lunedì mattina, provassero un'esperienza talmente negativa da ricordarla con molta amarezza ed emozione per lunghi anni.
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