27/04/2024
(101 utenti online)
Cronaca Redazione 22 gennaio 2007 23:13 Circa 4 minuti per leggerlo stampa
Non si può più prescindere da un ragionamento complessivo sul modello di stato sociale da adottare nel Paese. Il governo deve raccogliere la sfida del cambiamento e fornire un segno tangibile a favore dei più deboli.
Archiviata la Finanziaria, il governo e la sua maggioranza sono attesi nei prossimi mesi dalla sfida del cambiamento. Se è vero che uno dei motivi alla radice del disincanto della "base" del centrosinistra (lo abbiamo riscontrato nei sondaggi di questi mesi) risiede probabilmente nelle eccessive aspettative riposte nella prima Finanziaria del governo, è altrettanto evidente che il popolo che ha mandato a casa Berlusconi pretende risposte tangibili che diano il segno di un'inversione di tendenza.
L'agenda politica, in altri termini, dovrà prevedere interventi decisi a sostegno dei più deboli. Pensiamo innanzitutto ai lavoratori precari, a coloro che non riescono arrivare alla quarta settimana del mese: in Finanziaria sono state previste misure di stabilizzazione per un numero considerevole di lavoratori precari della pubblica amministrazione. Ora è necessario dare corso agli auspici, e passare dalle parole ai fatti coinvolgendo gli enti locali, le organizzazioni sindacali e tutti i soggetti politici sociali chiamati a "gestire" un percorso di stabilizzazione. In parallelo, la Commissione Lavoro della Camera entrerà nel vivo (da qui a fine marzo) dell'indagine conoscitiva sul precariato utile ad elaborare una mappatura che possa aiutare il Parlamento ad affrontare quell'emergenza.
Il terzo capitolo dell'agenda politica è quello che agita da giorni il dibattito sui quotidiani: mi riferisco alla riforma della previdenza e alle numerose fibrillazioni (anche all'interno della maggioranza) di chi vorrebbe orientare la difficile discussione verso misure penalizzanti nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori (e cioè delle pensionate e dei pensionati di domani).
A questo proposito vorrei ricordare ai più distratti e ai finti "riformisti" che il sistema previdenziale italiano è stato negli ultimi anni oggetto di continue revisioni che hanno prodotto nel tempo un significativo abbassamento delle prestazioni pensionistiche e forti sperequazioni, che hanno a loro volta prodotto un peggioramento delle condizioni materiali di vita delle persone. Tra l'altro questi interventi - che hanno via via condizionato sulla stampa e fuori da essa il dibattito sulla previdenza - sono sempre avvenuti prescindendo da un ragionamento complessivo sul modello di stato sociale da adottare nel Paese.
Ecco, questo difetto di partenza lo registriamo con evidenza anche oggi. Il principale argomento usato dai "riformisti" per invocare ulteriori modifiche del nostro sistema previdenziale parte dal presupposto che, essendosi di molto allungata l'aspettativa di vita, sarebbe necessario di conseguenza aumentare l'età pensionabile. Si tratta di una tesi che, francamente, non mi convince: per garantire la stabilità di un sistema pensionistico occorre innanzitutto favorire le entrate, aumentando i livelli occupazionali e combattendo il precariato e il ricorso al lavoro nero che determinano condizioni di lavoro caratterizzate da un lato dall'assenza di diritti e tutele e dall'altro da versamenti contributivi insufficienti o inesistenti. Tutto questo per dire che una "vera" riforma pensionistica viene dopo una incisiva ed efficace azione di politica del lavoro mirata ad una piena e buona occupazione.
Detto questo, è possibile riflettere in concreto sulla situazione attuale del sistema pensionistico italiano, che ci mostra innanzitutto prestazioni pensionistiche e di sostegno al reddito mediamente poco elevate con forti sperequazioni (come risulta dall'indagine Istat diffusa pochi giorni fa): per capirci, più della metà dei sedici milioni e mezzo dei pensionati vive con meno di mille euro al mese, uno su sei prende meno di cinquecento euro al mese, e gli attuali trattamenti erogati con il sistema di calcolo retributivo verranno ulteriormente ridotti ai futuri pensionati che, in tutto o in parte, usufruiranno di una pensione calcolata con il sistema retributivo. La situazione peggiora ulteriormente se prendiamo in esame il lavoro atipico: nel 2007 l'importo medio annuo delle pensioni in pagamento dei parasubordinati sarà pari a 1.188 euro all'anno.
A tutto ciò occorre aggiungere alcune anomalie ben radicate nel sistema italiano: dall'elevata percentuale di evasione contributiva, all'eccessiva (e per alcuni aspetti inspiegabile) frammentazione degli enti previdenziali, fino alla mancata unificazione degli stessi. In seguito all'armonizzazione e all'unificazione delle norme previdenziali appare ragionevole l'unificazione dei vari istituti in un solo ente, che garantirebbe una gestione rigorosa e uniforme delle norme e produrrebbe significativi risparmi di gestione.
Vorrei però soffermarmi anche su un'altra questione di "sistema": non è più prorogabile l'esigenza di separare assistenza e previdenza. E' stato spiegato ai lavoratori (nel momento in cui si è passati dal sistema retributivo a quello contributivo) che debbono finanziarsi la pensione attraverso i contributi da loro stessi versati: come giustificare allora che i lavoratori siano chiamati a contribuire alle funzioni assistenziali che sono a carico della fiscalità generale?
Dai precari di oggi alle pensioni di domani esiste dunque un filo conduttore che, a sua volta, ci conduce al programma elettorale dell'Unione e alle aspettative dei cittadini: il governo - questo è il punto - deve raccogliere la sfida del cambiamento e fornire un segno tangibile a favore dei più deboli. Occorre imprimere una svolta in questa direzione e i prossimi mesi risulteranno decisivi.
PARTITO dei COMUNISTI ITALIANI
RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright MARIGLIANO.net
Commenti